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Lavori di pubblica utilità, è boom

Una serata con gli amici può costare anche molto cara se, dopo aver alzato il gomito, si viene fermati dalla stradale. Multe salate, confisca dell’auto e, nei casi più gravi, si può anche finire in carcere. Ma c’è un’alternativa che, però, non tutti conoscono: scontare la pena attraverso i lavori di pubblica utilità (Lpu), cioè svolgendo un’opera di volontariato non retribuita in favore della collettività. Un tipo di misura che, prevista per la prima volta con la legge sulla droga del 1990, sta conoscendo dal 2010 un incremento sostanzioso, anche se i numeri rimangono ancora di dimensioni ristrette rispetto alle potenzialità. Le persone ammesse agli Lpu sono state infatti 62 nel 2010 (anno dell’entrata in vigore delle nuove sanzioni del codice della strada), 830 nel 2011 e 1341 solo nei primi 4 mesi e mezzo del 2012, secondo i dati dell’Ufficio esecuzione penale esterna (Uepe) del ministero della Giustizia. Eppure si tratta di una soluzione molto vantaggiosa per il condannato: permette di non dover pagare l’ammenda, di non scontare la pena in carcere ma soprattutto di mantenere pulita la fedina penale. Un’inchiesta di Redattore sociale in nove regioni cerca di capire perché questo tipo di misure non decollano, quali sono i limiti nella gestione, ma anche di raccontare le storie di chi da volontario “per forza” ha poi scelto di continuare a mettersi al servizio della collettività.

I reati commessi
Su 1.341 persone che al 15 maggio 2012 hanno svolto lavori di pubblica utilità la maggior parte, ben 884, ha violato il codice della strada: è stato sanzionato, cioè, per guida in stato d’ebbrezza o sotto l’effetto di sostanze psicotrope. Ci sono, poi, 19 casi di persone condannate per spaccio e traffico di stupefacenti e altri 10 sempre per reati legati alla droga. Due per associazione a delinquere, altri due per associazione a delinquere legato al traffico di stupefacenti, due per reati legati all’uso di armi, una persona per lesioni, un’altra per furto e ricettazione. Ci sono poi altri 303 soggetti che hanno commesso reati di altro genere.

Uepe: “Una misura che stenta a imporsi: poche convenzioni, va promossa di più”
Sono solo poco più di mille in tutta Italia le persone che scelgono di dedicarsi alla collettività come pena alternativa. “È una misura che ha stentato a imporsi – sottolinea Luigia Mariotti Culla, direttore generale dell’Uepe presso il ministero della Giustizia – perché presuppone una competenza specifica anche dei presidenti dei tribunali che devono fare le convenzioni con gli enti territoriali e gli enti di volontariato. Abbiamo fatto due circolari per ricordare ai tribunali questa possibilità e degli incontri con l’ordine degli avvocati. E ora cominciamo a vedere i risultati: nell’ultimo periodo c’è stato, infatti, un vero e proprio incremento di questa misura.” Poche le convenzioni, ma anche poca informazione per una misura che, invece, secondo il dirigente dell’Uepe: “va promossa di più, perché ha un grosso rilievo pedagogico”. A pesare è anche la “diversa sensibilità” nelle diverse zone del Paese: con il Nord molto impegnato e le regioni del sud che registrano ancora pochi casi.

Una situazione a macchia di leopardo
È nelle regioni settentrionali, infatti, che le persone scelgono di usufruire maggiormente di questo tipo di pena, svolgendo un’attività non retribuita verso la collettività. Al 15 maggio 2012 secondo i dati dell’Uepe il maggior numero di persone ammesse a svolgere sanzioni di pubblica utilità risiede in Piemonte e Valle d’Aosta (398) e in Lombardia (243), seguono la Liguria (104) e la Toscana (98), l’Emilia Romagna (89) e la Sardegna (67). Maglia nera alle regioni del Sud: solo 4 in Basilicata; 6 in Campania; 8 in Calabria e 14 in Sicilia. Non solo, ma spostandosi da regione a regione si registrano situazioni anche paradossali. Nella provincia di Milano, per esempio, sono solo 15 (11 associazioni e 4 Comuni), gli enti autorizzati ad accogliere i volontari. Con le liste d’attesa che si allungano sempre di più. Come succede anche a Bologna dove le richieste superano di gran lunga i posti disponibili. A Roma, invece, è principalmente il Comune, che fa la mediazione con gli enti, e a fronte di una convenzione stipulata negli ultimi 5 anni per 450 persone ha avviato ai lavori di pubblica utilità meno di una cinquantina di persone. Anche per quanto riguarda le convenzioni stipulate e l’effettivo svolgimento del lavoro di pubblica utilità lo scarto è evidente: in totale sono 2.893 i soggetti “ammissibili” a Lpu nel 2012 (cioè il numero potenziale per il quale il tribunale ha stipulato una convenzione con gli enti) ma di fatto sono poco più di 1300 i soggetti ammessi. Anche qui il divario tra le regioni è sostanziale: con il Triveneto che stipula convenzioni per 496 persone e la Lombardia per 336, in confronto alla Campania che lo fa per 10 persone o la Calabria per 57.

Storie di “volontari per forza” ma anche per passione
Il diverso approccio che sul territorio si registra nella gestione di questo tipo di misure alternative, ha anche un altro rovescio della medaglia: nelle regioni dove gli Lpu funzionano si trovano storie di chi da “forzato” della solidarietà è diventato un volontario convinto. È il caso di Mamadou, che sta scontando la pena alla Casa della carità di Milano e che ha espresso la volontà di continuare a prestare servizio anche dopo aver chiuso i conti con la giustizia. Così come un ragazzo di Bologna, che dopo aver ecceduto con alcune sostanze ora aiuterà il Centro di accoglienza La Rupe per i banchetti di informazione sulla prevenzione da alcol e droghe. 

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    Pubblica ogni anno più di 100 titoli. Tra le collane principali ci sono: L’Acchiappastorie albi e narrativa per bambini e ragazzi, i Percorsi a piedi e in bicicletta, I Biplani, racconti di grandi autori illustrati da artisti di fama, i manuali creativi delle Ecofficine.
    I primi grandi bestseller sono stati la guida al cammino di Santiago de Compostela e La grande fabbrica delle parole, di Valeria Docampo.
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