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Parola di pentito

“Mi aspettavo un passo in più da don Luigi Ciotti. Più volte l’ho invitato a casa mia, a Termoli, e lui aveva promesso che sarebbe venuto. Libera Termoli ha detto che mi sarebbe stata vicina. Ma ora sono tutti spariti”. Luigi Bonaventura, collaboratore di giustizia che fino al gennaio 2007 è stato reggente della ‘ndrangheta crotonese, lancia il suo appello dall’Arci Primo Maggio di Lodi vecchio. È intervenuto venerdì sera, nonostante il ministero dell’Interno avesse annunciato che non era in grado di garantire la sua sicurezza. Sapeva di mettere a repentaglio la sua vita, l’ex boss della cosca Vrenna-Bonaventura, una delle ‘ndrine più potenti della ‘ndrangheta ionica.

“Nemmeno a Termoli è protetto– precisa il suo avvocato Ruggero Romanazzi –. Quindi è in pericolo a Lodi come a casa sua.  Non ha mai avuto la scorta e lo stabile dove abita è stato di un altro pentito, prima di lui. Il mio assistito ha deciso di essere presente per dare un segnale forte con la sua testimonianza”. Solo la volontà di partecipare e di confrontarsi con il pubblico ha permesso a Bonaventura di essere presente. All’inizio sembrava che dovesse saltare la serata per la presentazione di “C’era una volta la Lombardia”, romanzo di Fabio Abati (scrittore e giornalista che ha partecipato alla serata “Gli scassaminchia”). Per motivi di sicurezza: nessuno avrebbe garantito per l’incolumità di Bonaventura.

Eppure la sua situazione dovrebbe essere nota, anche ai “piani alti”: è stato proprio Pietro Grasso, oggi presidente del Senato, a firmare il documento che lo faceva entrare nel programma di protezione testimoni. “Vorrei rivolgermi anche a lui – continua Bonaventura – sapendo però che la situazione politica in questo momento è instabile. Ma il dottor Grasso conosce benissimo le condizioni in cui mi trovo”.

Bonaventura cerca un contatto con le persone, è stanco di rimanere isolato. L’esperienza di venerdì sera, che definisce un esperimento, l’ha lasciato pieno di entusiasmo: “Ho avuto buoni riscontri, tante richieste d’amicizia sui social network e vicinanza: non me l’aspettavo. È un bell’inizio, speriamo possa diventare una nuova forma di antimafia”, aggiunge. Per quanto, come ammette lui stesso, i pentiti vadano “presi con le pinze”: “È pieno di falsi testimoni, che iniziano a collaborare solo per avere sconti di pena”. Non è il caso suo, dato che non ha mai avuto condanne in via definitiva. Confida di cominciare così, dal contatto con le persone, il suo riscatto, dato che finora il programma di protezione – scaduto da un anno e quattro mesi – non garantisce alcun reinserimento sociale.

L’hanno richiamato in tanti, dei suoi vecchi compagni: dai De Stefano ai Tebano, cosche mafiose che gli hanno promesso di riempirlo di soldi. Ha rifiutato e ha chiesto un trasferimento da Termoli, dove si sente troppo esposto: “Mi hanno dato un ultimatum: lasciare la città in 60 giorni, senza nemmeno sapere le condizioni”. Una proposta irricevibile per Bonaventura e il suo legale.

Ho deciso di collaborare perché penso non sia giusto rubare il futuro ai miei figli. Che futuro avrei dato loro restando nella ‘ndrangheta? Un futuro di delinquenza”. Così Bonaventura spiega le ragioni di una scelta che finora ha causato enormi disagi a lui, alla moglie e ai suoi due figli di 9 e 12 anni. Racconta del rapporto conflittuale con il padre, di uno scontro a fuoco avvenuto non appena l’uomo ha saputo della sua decisione. Racconta gli inzi della carriera, quand’era un “bambino soldato”, come lui stesso si definisce: “La prima volta che ho sparato avevo lasciato il pollice in fondo al carrello e il calcio della pistola mi ha fatto male – spiega -. Ricordo le prese in giro e la vergogna che provai, come ricordo il compiacimento negli occhi dei miei familiari la prima volta che ho ammazzato”.

Luigi Bonaventura collabora con 9 procure antimafia in Italia, con la Direzione nazionale e con una procura tedesca. Con le sue parole Bonaventura ha contribuito a gettare luce non solo sulla ‘ndrangheta, ma anche su camorra, Cosa nostra e Sacra corona unita. È stato anche tra i grandi accusatori della Lega Nord, in particolare dell’ex tesoriere Francesco Belsito. “Quando ho pensato di dire tutto ciò che sapevo – racconta – non sapevo nemmeno come cominciare. Venivo da una cultura di omertà assoluta parlare era difficilissimo. Per fortuna ero amico di Stefano Staglianò,  figlio dell’ex magistrato Giovanni Staglianò, che mi ha dato degli ottimi consigli”. Non ha una condanna definitiva alle spalle: Bonaventura dice di collaborare solo per desiderio di riscatto morale. Ma ha bisogno che l’antimafia non lo lasci solo e lo aiuti a raccontare la sua storia. 

Redazione: Lorenzo Bagnoli, 8.04.2013

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