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CIE, la farsa

I giornalisti possono entrare nel Cie di via Corelli, ma la visita si rivela una farsa. Durante il “tour” per la stampa nel Centro di identificazione ed espulsione di Milano, non ci è stato concesso di entrare nei cinque settori dove vivono i 64 reclusi(51 uomini e 13 trans), di cui 16 richiedenti asilo. Non abbiamo potuto vedere i bagni e le cosiddette “sale benessere” dove i reclusi mangiano e guardano la televisione, né giornali, libri e giochi in scatola che avrebbero a disposizione, almeno secondo quanto dicono gli operatori della Croce Rossa, l’ente che ha in gestione la struttura. L’unica cosa che abbiamo potuto fare è dare una sbirciatina veloce agli edifici vuoti in ristrutturazione e all’infermeria. E abbiamo potuto parlare solo con due reclusi, scelti da un elenco proposto dalla Prefettura. Più che una visita, insomma, il contentino ai giornalisti che da mesi chiedono di poter vedere come vivono i reclusi. La Prefettura di Milano sostiene che di più non poteva mostrare per “tutelare la privacy”, e la “sicurezza e l’ ordine pubblico”, poiché la nostra presenza “potrebbe causare confusione”. Come sembra sia accaduto mercoledì 18 luglio durante il tour della prima tranche di giornalisti ammessi. “Gli ospiti (così vengono chiamati da Prefettura e Croce Rossa, ndr) si sono agitati. Dobbiamo mantenere una situazione di tranquillità nell’interesse di tutti” affermano i funzionari della Prefettura.

Le condizioni di vita nel Cie di via Corelli sono comunque molto difficili. Massimo Chiodini, direttore del centro dall’agosto 2009, ammette “qualche difficoltà nella gestione della struttura”, in particolare per quanto riguarda la manutenzione dei bagni. “Proprio ieri hanno scardinato due rubinetti” afferma. Secondo le testimonianze dei reclusi, i sanitari sono in una situazione pietosa. “Ci sono quattro docce per settore e due sono rotte – dice uno di loro – e lo stesso vale per i rubinetti”. Una realtà confermata da Sandra Zampa, la deputata Pd che ha visitato il Cie lunedì 16 luglio, secondo la quale, inoltre, i reclusi sono imbottiti di psicofarmaci. La Croce rossa non nega che in molti (non ci è stato fornito il dato preciso) facciano uso di antidepressivi e calmanti. “I dosaggi sono limitati -assicura Massimo Chiodini- e li diamo solo su prescrizione del medico che è qui otto ore al giorno”.

Dall’ottobre del 2010, nella struttura è vietato introdurre cellulari e qualsiasi mezzo di registrazione audio o video. “È stata una decisione della Prefettura, dopo le rivolte esplose a giugno di quell’anno” spiega il direttore. Per comunicare con l’esterno gli “ospiti” (come vengono chiamati dalla Croce rossa) hanno a disposizione due telefoni per settore e uno nel corridoio centrale. Telefoni che spesso non funzionano. Ogni due giorni, spiega Chiodini, “vengono dati cinque euro a ciascun ospite che decide come spendere”. La scelta è tra telefonare, comprare le sigarette o qualcos’altro. Ma il dramma per queste persone, spesso molto giovani, è quello di non sapere quando e come usciranno dal Cie: tutti temono di essere espulsi, rimandati nel proprio Paese d’origine. Circa il 50% dei reclusi è arrivato in via Corelli direttamente dal carcere: scontata la pena, invece di tornare in libertà è stato trasferito nel Cie e vive ora in un limbo che può durare fino a 18 mesi. “Vorrei uscire di qui e avere una possibilità, lavorare, avere un permesso di soggiorno” dice Amid, 29 anni, recluso da più di un mese. Ma non sa se l’Italia gli concederà questa chance.

Testo: Ludovica Scaletti, per Redattore Sociale

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