Chiudi

Ricerca

Ricerca

La frontiera della terra

La Dancalia è un deserto. No, sono quasi certo che non sia esatto definirla così. La Dancalia è una geografia unica al mondo. È una terra di lava, fuoco e sale (e polvere, vento irritante, caldo da inferno). Sta in Africa orientale. Confine fra Etiopia ed Eritrea, Paesi che, da 15 anni, non trovano una pace fra di loro.

Si allunga fra il 15° e il 12° parallelo Nord. Gli italiani, dai tempi delle colonie, hanno chiamato Dancalia il frammento Nord orientale dellaregione degli afar, popolazione dispersa fra Etiopia, Eritrea e Gibuti. Cinquantamila chilometri quadrati, di cui almeno 10mila sono sotto il livello del mare. A volte questa terra sprofonda fino a 120 metri sotto gli orizzonti del vicino mar Rosso.

Qui si incrociano tre faglie tettoniche. È figlia di un cataclisma geologico, la Dancalia. Qui entra in Africa la Rift Valley, la fossa che, da Nord a Sud, per oltre 8mila chilometri, taglia il continente con un colpo di rasoio. E qui, appena cinque chilometri sotto i nostri piedi, mugghia il magma terrestre. Qui si vede la Terra pulsare, arrabbiarsi, creare una terribile bellezza. Fra qualche milione di anni, la Rift Valley spezzerà in due l’Africa. Nascerà una nuova immensa isola nell’oceano Indiano, il mare riempirà nuovamente la depressione dancala.

In fondo, la Dancalia è una crepa che si allarga ogni anno. Nel cratere dell’Erta Ale, “la montagna che fuma”, vi è uno dei quattro laghi di lava del nostro pianeta. Una linea di fuoco di vulcani affiancati è il sipario impressionante che delimita i confini di un mare prosciugatosi 80mila anni fa. Ha lasciato in eredità un deserto di sale vasto 600 chilometri quadrati. La coltre salina raggiunge uno spessore di oltre tre chilometri. Da secoli e secoli, la Piana del sale è una miniera a cielo aperto. Carovane di afar e tigrini, popolo dell’altopiano etiopico, continuano a scendere in questo deserto per estrarne mattoni di sale.

Negli anni Novanta del secolo scorso, chi andava in Africa, parlava della Dancalia come di una terra mitologica. È una delle culle dell’umanità. Qui, Lucy, il più celebre fra gli ominidi della nostra genealogia, si era alzata in piedi oltre tre milioni di anni fa.

Dicono che la Dancalia sia una terra estrema. Io credo che la Dancalia sia un antidoto. Per anni questa terra è stata irraggiungibile. Cronisti, fotografi e scrittori di viaggio, a corto di aggettivi, avevano trovato l’ultima chiazza bianca sulle carte geografiche. Per anni e anni, hanno scritto, con monotonia, che la Dancalia era “il luogo più pericoloso del mondo” e che gli afar erano predoni “feroci come il deserto, spietati perfino con se stessi ed elusivi come una cupa leggenda”.

Come molti, anch’io, poco meno di venti anni fa, provai a raggiungere la Piana del sale e i leggendari geyser di Dallol. Niente da fare. Per quattro volte venni respinto. Sbagliavo qualcosa. E non mi accorgevo che quella terra me lo faceva sapere. Peccavo di orgoglio. Credevo che fosse necessario solo un po’ di spavalderia per andarci. La Dancalia ribalta e cancella ogni stereotipo occidentale sull’Africa. Gli afar e questa terra sembrano dirti: guardami, ti sembriamo selvaggi? Bastò la gentilezza e il sorriso di Mohamed mentre ci offriva il tè all’ombra inesistente di un’acacia a spazzar via tutto quanto era stato scritto sulla ferocia degli afar.

In Dancalia bisogna essere disponibili a stringere un patto con questo deserto e i suoi abitanti. Fu Ander, un giovane scrittore basco, a spiegarmelo con chiarezza: “Se cerchi solo avventure, non riuscirai ad andare oltre la tua superficialità. La Dancalia ti apparirà insopportabile. Il sole bianco e rovente, l’indifferenza degli afar, la monotonia di un deserto privo di colori ti faranno sentire nudo e impotente. E il tuo equilibrio, fisico e mentale, rischia di andare in pezzi. Devi difenderti in Dancalia. Devi mostrare, soprattutto a te stesso, di avere un’anima di poeta. Si va in Dancalia per cambiare punto di vista“.

Gli afar sono gente brusca, dai gesti silenziosi e decisi. Sono uomini e donne che vivono in luoghi inospitali. Pascolano le loro vacche e i loro dromedari in terre dove l’erba è un miracolo. E loro stessi, gli afar, sono un miracolo: crescita demografica modesta, economia disperata e precaria. Sono sempre stati pastori nomadi o seminomadi. Un milione e mezzo di persone disperse in tre stati. Poche decine di migliaia (forse 30mila) vivono fra la Piana del sale e l’Erta Ale. Non hanno mai avuto cantori della loro storia, la loro lingua è stata scritta pochi decenni fa. Sono pochi i popoli africani ad avere avuto una negazione culturale così radicale. Eppure, sono ancora lì. In mezzo al deserto di sale. Percorsi da rivalità claniche, ma fieri di un’identità sorprendente. Mohamed offre ancora il tè ai carovanieri, sua sorella Aisha intreccia, senza un solo minuto di sosta, stuoie su stuoie, Ahmed ha le mani ferite dal sale che intaglia da sempre, Dini ha avuto fortuna: è salito in altopiano per studiare.

Il nuovo millennio, gli anni del 2000, sono il tempo del cambiamento. La prima volta che raggiunsi Afdera, sulle sponde del lago che, chiamato Giulietti, ci volle un giorno di viaggio per poco più di 100 chilometri dall’ultimo asfalto. Oggi, questo villaggio, è un avamposto da Far-East e i cinesi hanno costruito un’autostrada per poterci andare con i camion. Ad Ahmed Ela, desolato e bellissimo villaggio dei cavatori del sale, hanno tirato su l’antenna per i telefonini.È arrivato il turismo in Dancalia. Turismo di nicchia. Di avventura, più o meno fasulla. I ribelli di vecchi movimenti separatisti afar sono diventati scout e guide. In pochi anni migliaia di viaggiatori hanno salito le pendici dell’Erta Ale per affacciarsi al lago di lava. Lassù, oggi ci sono almeno quaranta capanne di pietra per accoglierli. È arrivata l’economia anche nelle desolazioni dancale. E sono accadute tragedie che riguardano noi: lo scorso anno, sull’Erta Ale, sono stati uccisi cinque turisti occidentali. Un agguato osceno e incomprensibile ai nostri occhi. Ma i viaggi verso uno dei confini del mondo, dopo qualche settimana di sconcerto, sono ripresi.

Cambia la Dancalia. Laggiù c’è potassio mischiato al sale. Forse c’è oro fra le lave del vulcano. C’è chi cerca petrolio. I canadesi dell’Allana Potash, multinazionale del potassio, hanno già cominciato la perforazione di 300 pozzi attorno ai fantastici geyser di Dallol. Ci sono compagnie indiane e cinesi. Hanno costruito una pista d’atterraggio. In pochi anni tutto è mutato ad Ahmed Ela. Gente dell’altopiano sta migrando verso la fornace dancala in cerca di un lavoro. I notabili afar vengono assunti dalle multinazionali a garanzia di una pace sociale. Nascono villaggi di container. C’è l’esercito a proteggere i compounds e i pozzi. Arrivano le prostitute. È una nuova antropologia. Come reagiranno gli afar? Come reagiranno gli spiriti, i jinn dei vulcani?

Ho un “figlio” in Dancalia. Oggi ha quasi diciotto anni. Lui mi parla della modernità e delle tradizioni. Indossa blu-jeans, parla inglese. Le sue sorelle intrecciano stuoie tutto il giorno. Non avevo mai visto un’auto (che non fosse il nostro fuoristrada) fra le capanne di Ahmed Ela. Oggi i potenti land-cruiser degli ingegneri minerari affiancano le carovane dei dromedari. Li guardiamo passare. Non so quali saranno le conseguenze del cambiamento in Dancalia. È appena cominciato e ha la forza di un tornado. Ma un vento leggero porta via la polvere dopo il passaggio delle auto. I cavatori del sale, allora, si incamminano verso lo spiazzo della preghiera. Si inginocchiano verso oriente, prostrano la testa fra i ciottoli. Come vorrei unirmi alla loro preghiera e dire: “Sia benedetta questa terra, così aspra e impossibile”.

Ho voluto scrivere un libro attorno alla Dancalia. Volevo compiere un gesto di gratitudine per una terra che mi ha socchiuso le sue porte. Volevo dire degli afar. Sono in debito con loro. Soprattutto volevo raccontare della diversità, assoluta, che ci separa da questa gente e dal luogo dove vive. Volevo che le diversità, la nostra e la loro, si guardassero. Si accettassero. Ho avuto bisogno di 300 pagine. Poi il libro si è accorciato, è diventato essenziale come il deserto. Adesso ho il dubbio di averlo scritto per compier un saluto, l’ultimo, a una Dancalia che non esiste più. In questa terra, quando si va via non ci si volta indietro. Mai. E io, contravvenendo alla regola, l’ho fatto. Non potevo andarmene senza un gesto di affetto. Ho fiducia nell’orgoglio afar, conosco la loro testardaggine. Ora mi interessa -faccio il cronista- il cambiamento della loro società e della loro geografia. Mi interessa ciò che accade dopo i titoli di coda di un libro.

Testo e foto: Andrea Semplici, TdM n°039, novembre 2012.

Prossime uscite

consigliato da noi

  • Iscriviti alla nostra newsletter

    Vuoi rimanere aggiornato sulle novità di Terre di mezzo?

    "*" indica i campi obbligatori

    Questo campo serve per la convalida e dovrebbe essere lasciato inalterato.
  • Terre di mezzo

    Terre di mezzo editore è una casa editrice fondata a Milano nel 1994.
    Pubblica ogni anno più di 100 titoli. Tra le collane principali ci sono: L’Acchiappastorie albi e narrativa per bambini e ragazzi, i Percorsi a piedi e in bicicletta, I Biplani, racconti di grandi autori illustrati da artisti di fama, i manuali creativi delle Ecofficine.
    I primi grandi bestseller sono stati la guida al cammino di Santiago de Compostela e La grande fabbrica delle parole, di Valeria Docampo.
    Negli ultimi anni ha portato in Italia le serie di Dory Fantasmagorica e Cane Puzzone, ha pubblicato più di 40 guide ai cammini italiani e ha dato alle stampe i testi di Paolo Cognetti e Erri De Luca impreziositi dalle illustrazioni di Alessandro Sanna, e di Wislawa Szymborska con Guido Scarabottolo, e Claudio Piersanti con Lorenzo Mattotti.

Nessun prodotto nel carrello.